La cosmologia dalla A ... alla B

Elio Fabri

Ultima revisione: 6-5-02


Quinta puntata

Ultime notizie...

Sono ormai diversi anni che le novità scientifiche vengono diffuse dai mezzi di comunicazione prima che dai canali tradizionali della comunità scientifica: riviste, congressi, più di recente Internet... Questo non può che far piacere a chi sia desideroso di tenersi aggiornato; ma presenta anche diversi inconvenienti.
Il primo è la sovrasemplificazione inevitabile (e come ho già detto, secondo me non sempre in buona fede). Non è possibile dare la notizia in forma adatta a un grande pubblico, spiegandone correttamente il significato, il quadro delle conoscenze in cui s'inserisce, in che cosa modifica o conferma le conoscenze precedenti, ecc.
È inoltre quasi impossibile descrivere tutte le cautele critiche e possibili interpretazioni che sono necessarie nel valutare un risultato scientifico, tanto più se "fresco", ossia non ancora assoggettato al vaglio degli esperti.
C'è poi la tendenza giornalistica, ma temo anche dei protagonisti della ricerca, a rendere l'evento più sensazionale, sia attenuando o sopprimendo del tutto le cautele che dicevo, sia esagerando l'importanza e/o l'attendibilità dei risultati raggiunti.

Il caso dell'esperimento "Boomerang" ha mostrato tutte queste caratteristiche. Si sono presentate delle immagini senza darne alcuna spiegazione, ma descrivendole come "fotografie del big bang"; si è asserito che le misure davano la prova che l'Universo è piatto, senza naturalmente chiarire che cosa ciò significhi, né tanto meno fare il minimo cenno alle incertezze sperimentali... E si potrebbe continuare...
È ovvio che se si vanno a leggere gli articoli originali, o si ascoltano i risultati dalla viva voce degli autori, i discorsi che si sentono sono alquanto diversi, e si capisce: quando un ricercatore parla a colleghi deve stare ben attento a non uscire dai canoni della comunicazione scientifica. Ma se le notizie apparse nei mass media erano così diverse, sarà proprio tutta colpa dei giornalisti? Io non credo. Dopo tutto, quei giornalisti non hanno inventato: avranno estratto le frasi che ritenevano più d'effetto, ma la loro fonte erano le conferenze-stampa e i comunicati dei ricercatori...
Sia chiaro: quello che ho citato è solo l'ultimo esempio, ma non è affatto l'unico. Sempre restando nella cosmologia, poco più di un anno fa (mi pare) si era molto parlato dell'Universo che "accelera l'espansione"; e anche a quel proposito potrei ripetere le stesse cose. Sono sicuro che in futuro ne sentiremo altre, e certamente non solo nella cosmologia.
Ora il mio compito è cercare di rimettere un po' le cose a posto, ossia dare un'idea più vicina alla realtà scientifica di che cosa è stato realmente visto, e di che cosa significa. Voglio anche mettere in chiaro perché si discute e si ricerca su queste cose, e quali sono le difficoltà della ricerca. Scusate se è poco...

Misure dirette e indirette
Nella puntata precedente spiegavo che di alcuni parametri cosmologici è possibile una misura piuttosto diretta: ho fatto l'esempio della costante di Hubble e quello della densità (di materia/energia). Non voglio disquisire sulla distinzione fra misura diretta e indiretta, che è tutt'altro che semplice da tracciare; però sottolineo che esiste comunque una graduatoria: quella di H è probabilmente la misura più diretta che si possa fare in ambito cosmologico. Ora dovremo occuparci di misure assai più indirette, che sono d'altra parte necessarie, perché altrimenti non si riesce ad avere dati sufficienti a un confronto con le teorie.
Il problema con le misure indirette è che spesso sono anche più incerte, nel senso che i dati di osservazione possono essere affetti da diverse cause di errore. Ma c'è di più: per sua natura una misura indiretta è fortemente condizionata da ipotesi e modelli teorici, da approssimazioni di calcolo... Quindi la sua interpretazione dipende molto dai modelli e dalle approssimazioni che si usano, e la sua valutazione dipende dalla fiducia che ciascun ricercatore ripone in tali modelli e approssimazioni. Non c'è da lamentarsi, né da svalutare queste ricerche; si può invece dire "così va la vita". L'importante è solo non prendere lucciole per lanterne, e non vendere come nuova una macchina usata... A questo serve la critica nell'ambito della comunità scientifica: nessuno è solo, ciascuno è sempre soggetto al controllo di altri, che spesso la vedono diversamente. Dalla discussione e dal confronto si può riuscire a capire come stanno realmente le cose, a decidere dove e come condurre ulteriori ricerche, ecc.
Un esempio: ancora la costante di Hubble
Forse tutto questo discorso è un po' troppo vago, per cui è meglio illustrarlo con un esempio, che prendo dalla storia della prima misura cosmologica: appunto quella della costante di Hubble.
Ho già detto che per la misura di H occorre misurare il redshift di una sorgente e la sua distanza. Naturalmente meglio se la misura si fa su molte sorgenti, e tanto meglio se sono lontane, perché il redshift sarà più grande e quindi meglio misurabile.
In effetti la misura del redshift non è mai stata un problema, perché le righe spettrali si possono identificare anche in sorgenti (galassie) parecchio lontane: il vero problema è sempre stato la misura della distanza. Tanto è vero che le prime misure, quelle degli anni '30-'40, erano sbagliate e non di poco: ne risultava per H un valore 10 volte maggiore di quello che oggi si ritiene più corretto.
Come mai? La storia di questo errore è tipica di quello che può succedere (anche se l'esperienza insegna, e con gli anni siamo diventati più smaliziati...).

Il metodo allora in uso per misurare la distanza di galassie non troppo lontane, era quello di cercare nella galassia un certo tipo di stelle variabili, dette "cefeidi". La virtù delle cefeidi è di essere variabili "regolari", ossia di aumentare e diminuire luminosità con un ciclo periodico assai preciso (si parla di alcuni giorni). Ma non solo: si era scoperto, già molti anni prima, che il periodo di variabilità di una cefeide era strettamente correlato alla sua luminosità intrinseca. Le cefeidi più luminose erano quelle con periodo più lungo, e la relazione era stata ben studiata, non sto a dire come.
Perciò una volta scoperta, in una certa galassia, qualche cefeide, la misura del periodo era facile; ne seguiva la conoscenza della luminosità intrinseca. Si poteva d'altra parte misurare la luminosità apparente (termine improprio: gli astronomi parlano di "magnitudine apparente", ma possiamo contentarci) e in questo modo risalire alla distanza, perché a parità di luminosità intrinseca la stella appare tanto più debole quanto più è lontana.
Dunque: galassia, cefeidi, periodo. Dal periodo si arriva alla luninosità assoluta, quindi alla distanza della galassia. Misurato a parte il redshift, e ripetuta l'operazione per varie galassie, si aveva la relazione distanza-redshift, ossia la legge di Hubble con la sua costante. Semplice, no?

Allora, dov'era l'errore? Stava nel fatto che non si sapeva allora che accanto alle "cefeidi classiche" esisteva un'altra classe di variabili regolari, che vennero poi chiamate "cefeidi di tipo II". Pur avendo anch'esse una relazione fra periodo e luminosità simile a quella delle cefeidi di tipo I, sono molto meno luminose a parità di periodo. Risultato: se si scambia una cefeide di tipo II per una di tipo I, la si crede più luminosa di quello che è; dato che la si vede debole, si attribuisce questo a una maggior distanza. E così la costante di Hubble riusciva sbagliata per eccesso, per un fattore 5 o più.

Questa puntata è in corso di elaborazione...


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